SOLI E SOLITARI

L’uomo è un animale sociale, dicono. La sua supremazia in campo evolutivo si spiega in gran parte con questa sua capacità di comunicare, scambiare e condividere. Dall’interazione nascono alleanze, contratti sociali, interessi reciproci, e l’unione delle forze genera tribù, eserciti, superpotenze. L’aggregazione e l’appartenenza offrono un senso di sicurezza e protezione. Ma questo ha imposto un prezzo sull’essere umano: la rinuncia alla libertà e il senso di avventura. La solitudine, demonizzata da una società che esige sempre l’omologazione per motivi di controllo, è una risorsa preziosa. Ci sono due termini che dstinguono in modo preciso gli stati d’animo dell’essere isolato: il primo è “solo”, e designa la condizione ontologica di ogni mortale che, fondamentalmente, rimane un’entità a se stante. Una persona è sola soprattutto in mezzo alla moltitudine, circondata dall’indifferenza, alienata dentro i grandi aggregati, murata viva nei gusci incrostati della città, abbandonata a se stessa.

Il secondo termine è “solitario”, e questo sta a designare la necessità e il desiderio di alcuni di noi di separarsi dalla moltitudine per ritrovare, nella pace e nel silenzio, una parte dimenticata e trascurata dell’anima. Il solitario abbandona gli altri per un appuntamento con sè stesso. Il solitario è sempre in compagnia delle sue percezioni e in contatto con la sua anima; come tale, non potrà mai essere solo. Il solitario è visto dalla società come una figura disadattata, un personaggio strano, quasi alienato. Ma le persone sole e alienate sono proprio quelle che temono di ritrovarsi in compagnia di se stesse e quindi preferiscono ottundersi nella massa e rinunciano alla parte più bella, libera e avventurosa del proprio cuore.

Anche l’inglese ha due termini per indicare questi stati: loneliness e solitude. “The lonely person” è sola. “The solitary soul” è l’anima che s’eleva tramite l’emozionante esplorazione di luoghi non frequentati, e vede nell’auto-esilio l’unica forma di avventura possibile.